Mohammed Reda, egiziano di 26 anni, muore il 7 febbraio 2015 nel CIE di Bari. di Francesca Mazzuzi – Mohammed fu portato nel CIE di Bari Palese il 2 gennaio 2015, dopo avere passato 4 anni di reclusione nel carcere di Biella. Il suo legale racconta come avesse tenuto una condotta esemplare, ciononostante all’uscita dal carcere non era una persona libera, essendo destinatario di un provvedimento di espulsione doveva lasciare il territorio italiano. Per questo motivo finì in un centro per il rimpatrio per essere identificato e rispedito in Egitto. In questo caso, come per tanti altri, ci chiediamo come potesse essere identificato in pochi mesi quando non era stato possibile farlo nei quattro anni precedenti, aggiungendo un ulteriore periodo di privazione della libertà personale e di afflizione alla pena già scontata in carcere. Mohammed aveva presentato richiesta di asilo diverso tempo prima di essere ascoltato dalla Commissione territoriale competente; il colloquio era avvenuto il 6 febbraio 2015, quando aveva ricevuto anche la notizia che la sua permanenza nel CIE sarebbe stata prorogata di un altro mese.  Il giorno successivo Mohammed muore per arresto cardiorespiratorio irreversibile e secondo quanto riferito, il 118 fu avvertito almeno un’ora dopo l‘avvenuto decesso. I medici del CIE avevano descritto Mohamed come persona non in buona salute, tuttavia ne era stata dichiarata la compatibilità con la detenzione. Aveva problemi di obesità ed era affetto da una grave forma di asma, e per questa patologia fu visitato da un pneumologo che prescrisse alcuni esami medici mai eseguiti. Come spesso accade, i tempi per ottenere i permessi di uscita dai CIE (oggi CPR) non tengono conto del carattere di urgenza delle visite specialistiche da effettuare, prassi consolidata che si riflette sulla tutela del diritto alla salute di chi si trova trattenuto in custodia dello Stato. Alcuni parlamentari visitarono la struttura dopo il fatto, il 17 febbraio venne presentata una interrogazione parlamentare (n. 4-07990) rivolta al Ministero dell’Interno in cui si chiedevano informazioni sulle eventuali procedure espletate per l’identificazione nell’istituto di pena dove era recluso Mohammed e sulle azioni che sarebbero state intraprese per individuare le eventuali responsabilità sulla sua morte.  Nella banca dati del Parlamento, tale interrogazione appare ancora in corso e non risulta essere mai pervenuta alcuna risposta. In quel periodo il CIE di Bari era gestito dal consorzio Connecting People di Trapani, già oggetto di diverse indagini giudiziarie, ed era in corso un procedimento tra il Tribunale di Bari e il Ministero dell’Interno per la chiusura del CIE. Iniziativa promossa da un’azione legale di avvocati, Regione e Comune parti civili che portò, nel 2017, alla sentenza in primo grado del Tribunale di Bari (n. 4089 del 10 agosto 2017) che condannò la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’Interno al pagamento di un risarcimento del danno all’immagine (quantificato in 32.722,66 euro) subito dal Comune e dalla Provincia di Bari e dalle comunità ivi residenti, a causa della gestione del CIE nel territorio, e al pagamento delle spese processuali anche alla Regione Puglia. Una successiva sentenza della Corte d’Appello di Bari (n. 2020 del 30 novembre 2020) ha confermato in linea di principio quanto stabilito in primo grado e ha individuato la competenza esclusiva del Ministro dell’Interno in materia di immigrazione, escludendo la legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei ministri La struttura di Bari era notoriamente inadeguata a garantire uno standard minimo di dignità umana, sia dal punto di vista strutturale sia da quello sanitario. Condizioni di vita che sfociavano in frequenti proteste dei detenuti che nel corso tempo avevano causato l’inagibilità di alcuni moduli. Tra il marzo 2016 e il novembre 2017 il CIE restò chiuso per lavori di ristrutturazione, ma alla sua riapertura le condizioni di vivibilità non subirono miglioramenti.  Il 5 agosto 2018 è datato l’ultimo accesso al CPR di Bari Palese (ex CIE), gestito dalla coop Badia Grande, da parte di una delegazione della Campagna LasciateCIEntrare insieme all’europarlamentare Eleonora Forenza. Nel corso della visita era stato appurato che diverse persone non avrebbero dovuto trovarsi chiuse in un CPR, per motivi di salute o perché ancora inseriti in progetti di accoglienza: per esempio alcuni si trovavano ancora nei termini per presentare ricorso contro il diniego della protezione internazionale, altri erano stati portati nella struttura mentre erano in possesso di un appuntamento in Questura per reiterare la richiesta di protezione internazionale.  Furono riferite difficoltà di accesso e di tutela di diversi diritti, come quello di presentare domanda d’asilo (che richiedeva anche alcuni mesi di attesa), di difesa legale (avvocati non erano avvisati in tempo per presenziare alle udienze di convalida e di proroga del trattenimento), di assistenza sanitaria (tempi troppo lunghi di risposta alle richieste di aiuto e soccorso). Diverse anche le segnalazioni di violenze subite dai trattenuti soprattutto in occasione delle operazioni di rimpatrio. Le proteste per le condizioni di vita all’interno del CPR (ex CIE) di Bari Palese hanno continuato a susseguirsi e sono sempre poche le informazioni che riescono a trapelare dall’interno. Alla fine del febbraio 2022 la struttura è ancora gestita dalla coop. Badia Grande in attesa che siano espletate le procedure di gara per l’individuazione di un nuovo (forse) gestore.