Il 25 dicembre Mohammed (nel 1999) e Carlos (nel 2009) muoiono nei centri di detenzione amministrativa, rispettivamente, di Roma e di Milano, mentre sono sotto la tutela dello stato italiano. CPT(A), CIE, CPR sono acronimi di vere e proprie carceri in cui vengono rinchiusi i cittadini stranieri in attesa di essere rimpatriati solo perché non possiedono un regolare documento di soggiorno, solo perché indesiderati.  Queste strutture, istituite in Italia dal 1998, sono luoghi di privazione della libertà personale, di diritti, di dignità. Sono anche luoghi di morte. In Italia sono poco meno di quaranta le persone decedute, almeno quelle di cui siamo a conoscenza, a causa della detenzione amministrativa. Per non dimenticare la violenza delle politiche migratorie di cui i centri per il rimpatrio sono solo un segmento, per continuare a pretendere verità e giustizia per tutte le persone che ne sono state vittime, vogliamo ricordare i morti di detenzione amministrativa, a partire dalle storie di Mohammed e Carlos. Mohammed Ben Said, tunisino di 39 anni, muore la notte di Natale del 1999 nel CPT(A) (Centro di permanenza temporanea e di assistenza), di Ponte Galeria, Roma.  Mohammed non avrebbe dovuto trovarsi nel CPT. Uscito dal carcere dopo avere scontato una piccola pena per un reato minore fu portato nel CPT di Ponte Galeria a Roma.  Mohammed era sposato con una cittadina italiana. Secondo la legge era inespellibile, di conseguenza non sarebbe dovuto essere rinchiuso in un centro in cui gli stranieri senza documenti sono privati della libertà in attesa dell’esecuzione del rimpatrio.  Per diversi giorni Mohammed aveva cercato di fare valere i suoi diritti, ma nessuno gli aveva creduto. Arrivato al CPT aveva chiesto assistenza sanitaria, aveva la mandibola fratturata, forse era arrivato in queste condizioni dal carcere. Non ricevette cure mediche ma una dose letale di psicofarmaci. Per diverse ore gli altri detenuti avevano chiesto aiuto per lui disperatamente, ma i soccorsi arrivarono troppo tardi. Mohammed era già morto. E troppo tardi, solo dopo la sua morte, fu ritrovato il certificato di matrimonio, documento che gli avrebbe garantito la libertà. Le cause del suo decesso restano sconosciute. Carlos Silva da Costa, brasiliana di 34 anni, muore il 25 dicembre 2009 nel CIE (Centro di identificazione e espulsione) di Milano. C. S. fu prelevata dalla polizia il 20 dicembre dopo un “controllo” anti-immigrazione nella zona di piazzale Lagosta a Milano, ed essendo priva di documenti venne portata al CIE di via Corelli in attesa di essere espulsa in Brasile. A pochi giorni dal suo ingresso nel Centro, il 25 dicembre verso le 14, entrò nel suo alloggio. Nessuno notò qualcosa di strano. Ma alle 15:30 qualcuno la trovò ormai esanime. L’allarme venne dato troppo tardi, inutile la rianimazione. C., persona vulnerabile (LGBTI), si era tolta la vita utilizzando un lenzuolo legato alle sbarre della finestra. Le cause del suicidio restano ignote, possiamo solo supporre potessero essere legate al dramma di un eventuale rimpatrio in Brasile, paese che ancora oggi è il più letale al mondo per le persone transgender e transessuali e in cui hanno un’aspettativa di vita di 35 anni.