di Francesca MazzuzziIl 2 dicembre un numero non precisato di algerini irregolari è stato riportato in Algeria, nel porto di Ghazaouet, da una nave spagnola.

Si tratta di un rimpatrio avvenuto nel più totale riserbo, così come almeno gli altri due che sono seguiti, e con misure di sicurezza che hanno impedito a chiunque di avvicinarsi al porto.

Le associazioni umanitarie che hanno chiesto di avere informazioni sulle modalità in cui sono avvenuti i rimpatri, cercando di sapere quante persone erano state deportate e se erano stati rispettati i loro diritti, non hanno ricevuto alcuna risposta dalla autorità competenti.

Gli harraga sono riusciti a comunicare ai loro parenti l’arrivo a Ghazaouet, dopodiché nessuna notizia per alcuni giorni. Pare siano dovuti comparire di fronte al pubblico ministero.

Le famiglie delle persone deportate sono preoccupate a causa di questo silenzio.

Youcef Benkaaba, avvocato specializzato in immigrazione e membro della Lega algerina per la difesa dei diritti umani (LADDH, sede di Tlemcen), lamenta le scarse informazioni sugli accordi di rimpatrio tra Algeria e alcuni paesi europei, nonché sulle condizioni in cui vengono eseguiti i rimpatri, in particolare in questo periodo di pandemia.

Dopo la lunga fase di blocco a causa della chiusura delle frontiere per l’emergenza sanitaria, l’Algeria è il terzo paese, dopo Marocco e Mauritania, a riprende le riammissioni dei propri cittadini che hanno varcato i confini irregolarmente.

Nel 2020 l’immigrazione irregolare algerina in Spagna è aumentata del 606% e al 6 settembre, 5.343 algerini sono stati fermati nelle coste meridionali della penisola iberica, oltre quelli che sono sfuggiti ai controlli e che non rientrano nei dati ufficiali.

Come riportato dal quotidiano El Pais, la ripresa dei rimpatri è una priorità del Ministro dell’interno spagnolo per fare fronte all’aumento degli arrivi irregolari in Spagna e in particolare nell’arcipelago delle Canarie, dove sono aumentati dell’882% nel 2020.

La rete “CIES No” ha denunciato la deportazione di 70 algerini, avvenuta nei giorni scorsi, dopo essere stati detenuti nei CIE (Centros de Internamiento de Extranjeros) di Madrid e Barcellona, a pochi giorni della scadenza del tempo massimo di trattenimento (60 giorni).

Gli attivisti hanno denunciato trattamenti degradanti nel CIE di Aluche (Madrid), aperto dal 6 ottobre, da dove sono stati eseguiti i rimpatri dopo un solo test diagnostico per il Covid-19, nonostante la presenza di positivi nel Centro, dove sono avvenuti due tentativi di suicidio e dove era detenuta un persona gravemente malata di diabete, che in seguito è stata liberata. Ma hanno segnalato anche la presenza di minori e il mancato accesso al diritto di presentare domanda di asilo per diverse persone recluse, fatto denunciato alle autorità competenti.

Anche nel CIE catalano, aperto a settembre dopo sei mesi di chiusura, sono state presentate denunce, raccolte da avvocati delle associazioni Irídia e MigraStudium, per maltrattamenti da parte di agenti di polizia e per il trattamento degradante subito, soprattutto da algerini, nel periodo di privazione della libertà per la quarantena o per l’isolamento per positività al Sars-Cov-2. Tali condizioni hanno comportato uno stress tale da portare al compimento di atti di autolesionismo.

Tra le persone che hanno presentato denuncia, un algerino ha dichiarato di essersi inferto dei tagli in tutto il corpo utilizzando un coltello di plastica, a causa delle condizioni del prolungato isolamento e del maltrattamento subito, racconta che quando gli agenti si sono accorti del suo atto di autolesionismo, una volta entrati nella stanza, “mentre alcuni mi tenevano gli altri mi colpivano”.

Un altro dei reclusi algerini, risultato positivo, ha raccontato di essere stato trasferito in un locale, in cui per andare al bagno era costretto a chiedere agli agenti di polizia di aprirgli la porta, ma l’accesso ai servizi gli è stato negato diverse volte, costringendolo a espletare i propri bisogni dalla finestra. Si è trovato isolato per dieci giorni in una stanza, che non era in grado di localizzare all’interno al centro, totalmente priva di mobili e di luce, se non quella di una finestra. Per tutto il periodo dell’isolamento è stato costretto a dormire e mangiare per terra. Ha denunciato, ma ora è stato rimpatriato.

Fonti del Ministero dell’Interno spagnolo minimizzano l’accaduto, riguardo il numero dei positivi nel CIE e le condizioni dell’isolamento sanitario, che secondo tali fonti si sarebbe, invece, svolto in alloggi forniti di letti e climatizzati.

Anche il Comune di Barcellona ha chiesto la chiusura dei CIE per la mancanza di protocolli adeguati per affrontare l’emergenza sanitaria.

Né le associazioni né l’amministrazione catalana hanno ricevuto risposta alle segnalazioni presentate al tribunale con funzione di controllo del CIE, al quale è stato chiesto di chiudere la struttura, di trasferire le persone che devono passare il periodo di quarantena e di isolamento in luoghi adeguati, come hotel appositamente messi a disposizione, e di avviare un’indagine sulle condizioni in cui è stata disposta la quarantena nel CIE catalano sin dalla sua riattivazione.

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