L. è una donna meravigliosa. La incontrammo a Cagliari più di un anno fa. Lavoratrice indefessa da 5 anni in Italia, con grande fatica e dignità ha sempre trovato il modo per sostenersi, pagare l’affitto, mandare i soldi alla famiglia in Senegal. L. è una combattente che ogni giorno si dava da fare perché la vita va presa a morsi, nonostante il dolore. L. è una donna senegalese e per questo, per poter mantenere il posto che duramente si è conquistata, in questi anni deve aggiornare il suo permesso di soggiorno, come tutti gli “stranieri” presenti in Italia. In Sardegna, ma come in molte altre parti in questo paese, in troppe situazioni rinnovare il permesso di soggiorno diventa una corsa ad ostacoli, troppo spesso un vero e proprio incubo, alcune persone ci hanno raccontato che dopo un anno e mezzo dalla richiesta non avevano ricevuto risposta per il loro rinnovo, con tutto ciò che ne consegue in termini di perdita dei diritti di base. Sistemati tutti i documenti necessari per il rinnovo, comprati i regali per tutta la famiglia a Dakar, L. finalmente riesce a tornare a casa con in mano quel pezzo di carta che in attesa del rinnovo ti permette di tornare a casa tua, dai tuoi cari. L. è una donna coraggiosa, è lei che con le sue spalle potenti mantiene l’intera famiglia fatta di fratelli, sorelle, madre, padre e nipoti. L. è bellissima, si sistema i capelli intrecciandoli e ci mette dentro tutta la forza del mondo, per questo forse quando la si guarda appare luminosa ed ha l’odore delle cortecce degli alberi. La incontrammo in un giorno di sole tra un sorriso ed un respiro muto. Il 30 Novembre riceviamo segnalazione di una donna trattenuta in aeroporto a Milano, contro la quale verrà effettuato un respingimento. Quella donna è incinta, al terzo mese di gravidanza, sta tornando a casa, in Italia, per riprendere il lavoro, il sudore delle giornate solitarie. Ha sopra le sue spalle l’intero villaggio e negli occhi il sorriso aperto della sorella che la saluta mentre prende l’aereo e lo sguardo di suo marito. Quella donna è L. Nelle 48 ore di gabbia all’interno dell’area di frontiera dell’aeroporto di Milano Malpensa prova a chiedere un paio di volte la presenza di un medico: è stanca e preoccupata per il suo bambino. Non glielo concedono, le danno solo delle medicine. Dopo ripetute lettere pec al garante per i Diritti delle persone private della libertà ed a Polaria (la polizia di frontiera area), può incontrare un medico che soltanto la guarda. L. non si arrende e chiede di vedere un avvocato. Ricominciamo ad inviare pec agli organi competenti perché garantiscano il diritto di difesa. Nelle aree aeroportuale non si riesce quasi mai a far entrare avvocati (al 99%), sono aree di sospensione del diritto, le persone non sono più persone infatti ma oggetti temporanei. L’avvocato contattato chiama ripetutamente la polizia di frontiera e si unisce all’invio di pec. Non c’è nulla da fare. L’ufficiale di polizia riferisce ad L. che loro possono respingere chi gli pare, anche una donna incinta. I tempi sono cambiati. Prima di essere spinta sull’aereo L. mi dice: “Combatterò per tornare. Combatterò per riprendermi quello per cui ho sudato in tutti questi anni. Non mi arrendo”. L. ed il bimbo che porta in grembo vengono respinti su un aereo di linea che parte l’1 Dicembre da Malpensa con direzione Dakar. Arriva la mattina del 2 Dicembre: 72 ore in cui madre e figlio sono soltanto oggetti temporanei. Uno stato che respinge e se ne fa vanto con una crudeltà simile morirà della sua stessa disumanità. Noi siamo dalla parte di L. e non ci arrenderemo. La segnalazione di questa vicenda è arrivata alla Campagna LasciateCIEntrare tramite il neonato telefono SOS razzismo.