di Francesca Mazzuzi – In Algeria protestare pacificamente, formare associazioni, difendere i diritti umani e la libertà di espressione è “un reato”. Il 28 maggio si è conclusa la campagna internazionale “#PasUnCrime” (non è un reato) lanciata da 38 associazioni algerine impegnate nella difesa dei diritti umani che chiedono alle autorità del paese nordafricano di fermare gli attacchi alla società civile e alle libertà fondamentali.

Le autorità algerine da tempo sono impegnate nel limitare la libera espressione delle voci che si oppongono all’élite politica che detiene il potere da decenni. I partecipanti al movimento popolare “hirak”, sorto nel 2019 per chiedere il rinnovo totale del sistema politico, subiscono continue azioni repressive. Da circa un anno è di fatto impedito di manifestare in gran parte del paese, qualsiasi opinione critica nei confronti del governo viene criminalizzata istruendo processi sulla base di accuse di terrorismo senza fondamento (anche grazie ad apposite modifiche del diritto penale), portando avanti azioni legali contro la società civile, ordinando lo scioglimento di partiti politici d’opposizione, ostacolando la costituzione e l’attività di sindacati indipendenti. Da tempo si registra una preoccupante recrudescenza del clima repressivo nei confronti di difensori dei diritti umani, di attivisti pacifisti, di giornalisti, di sindacalisti indipendenti e dei media.

Dall’inizio del 2022, fino al 17 aprile, si stima siano state arrestate almeno 300 persone semplicemente per avere esercitato il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero o di riunirsi pacificamente. Secondo la Laddh (Lega algerina per la difesa dei diritti umani), questi numeri sono sottostimati poiché molti casi non sono segnalati per paura di ritorsioni. 

I detenuti di opinione utilizzano lo sciopero della fame come strumento di contestazione. El Hadi Lassouli, per esempio, è in sciopero dal 3 maggio per opporsi all’arbitrarietà della propria detenzione. Alcune persone sono rilasciate, altre “spariscono”, altre ancora muoiono, come accaduto lo scorso 24 aprile all’attivista Hakim Dbazi, in carcere dal 22 febbraio a causa di alcuni post pubblicati sui social media. 

La campagna #PasunCrime ha chiesto la fine della repressione e la possibilità per tutti gli algerini di esercitare liberamente i propri diritti, il rilascio immediato e incondizionato delle persone in detenzione per avere espresso le proprie opinioni, giustizia e risarcimento per coloro che stanno subendo ingiuste accuse.

Questa campagna è terminata il 28 maggio 2022, data coincidente con il terzo anniversario della morte del difensore dei diritti umani Kamel Eddine Fekhar, deceduto dopo uno sciopero della fame di 50 giorni mentre era in carcere per avere esercitato la libertà di espressione. Diversi anni prima, l’11 dicembre 2016, un altro giornalista algerino-britannico, Mohammed Tamalt, morì dopo uno sciopero della fame mentre si trovava in stato di detenzione per avere offeso, dal suo blog, il presidente della Repubblica algerina. Su entrambe queste morti le autorità del paese nordafricano non hanno condotto reali indagini per fare chiarezza e individuare le responsabilità.

Le violazioni delle libertà fondamentali registrate in Algeria non hanno suscitato decise prese di posizione a livello internazionale, a parte gli allarmi lanciati da associazioni per la difesa dei diritti umani e un richiamo a “cambiare rotta” da parte dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite.

Il motivo? L’Algeria è un fondamentale partner strategico dell’Europa nell’ambito dell’energia, in particolare per Italia e Spagna. La centralità del suo ruolo è recentemente accresciuta in seguito al tentativo di affrancamento dei paesi europei dal gas russo, tra le conseguenze della guerra in Ucraina, e a farne le spese è il rispetto dei diritti umani.

Ne è un esempio quanto accaduto lo scorso 24 marzo, quando il governo algerino aveva minacciato di bloccare la fornitura di gas verso la Spagna. In risposta il governo iberico eseguì deportazioni illegittime di cittadini algerini verso il paese nordafricano. Le relazioni tra i due paesi si erano incrinate in quegli stessi giorni per via della presa di posizione del presidente del governo spagnolo a favore della proposta del Marocco riguardo la situazione nel “Sahara occidentale”. Il governo di Madrid, per tentare di compiacere il partener nordafricano, aveva, quindi, consentito al rimpatrio verso Algeri di Mohamed Benhalima, ex militare dissidente e richiedente asilo in Spagna, nonostante avesse a suo carico 19 cause penali aperte e una condanna a morte pronunciata da un tribunale militare algerino, in quanto attivista politico del movimento hirak e per avere denunciato la corruzione nell’Esercito del suo paese. Benhalima è stato portato al carcere militare algerino di Blida dove molto probabilmente vi resterà a vita. Infatti l’Algeria non esegue condanne a morte dal 1993, ma queste si convertono di fatto in ergastoli. “In Algerina c’è il gas ma non i diritti umani”, così diceva Benhalima, in un video registrato dal Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Valencia, prima della sua deportazione, in tutta fretta con un volo charter, verso Algeri insieme a un gruppo di connazionali, immediatamente dopo avere ricevuto un diniego alla seconda richiesta di protezione internazionale.  In quello stesso volo si trovava anche Abderrahim, un giovane algerino di 25 anni, ingiustamente rimpatriato e per il quale la sua legale ha ottenuto, almeno sulla carta, il diritto a un visto per tornare in Spagna come richiedente asilo. Abderrahim ha numerose e profonde cicatrici, era stato sequestrato e torturato da un pericoloso gruppo legato a una rete di trafficanti di organi attiva in Algeria. I suoi rapitori lo avevano creduto morto. Una volta riuscito a sfuggire ai suoi aguzzini si era presentato davanti alle forze di polizia per denunciare il fatto. Qui non ha trovato protezione, ma il consiglio di lasciare il paese. Una volta abbandonata l’Algeria e raggiunte le coste della Spagna con una piccola barca pensa di essere al sicuro, in un paese in cui vige il rispetto dei diritti umani. Invece, viene rinchiuso in un centro di detenzione per migranti e rimpatriato anticipatamente, nonostante l’ordine di sospensione della sua espulsione. Chissà quanti altri cittadini algerini hanno subito deportazioni illegittime solo per il mantenimento di buone relazioni con un importante partner commerciale. Stesso destino potrebbe essere riservato ai tanti algerini che cercano rifugio giungendo in Italia. L’Algeria viene considerata un paese sicuro, pertanto le veloci procedure di frontiera non permettono un reale approfondimento della storia personale di quanti fuggono da un paese che non è in grado di garantire importanti diritti. Sembra evidente che la violazione dei diritti fondamentali dei cittadini algerini e la loro sorte una volta rispediti indietro, non destino particolare interesse per le autorità italiane. Per contro, le relazioni tra i due paesi procedono a gonfie vele. Le interlocuzioni tra Italia e Algeria per stipulare accordi in vari campi, non solo su energia e gas, sono sempre più stringenti. La recente visita in Italia del presidente della Repubblica algerina, Abdelmajid Tebboune, del 26 e 27 maggio, è stata l’occasione per la conclusione di accordi bilaterali e per preparare il vertice che si terrà tra il 18 e il 19 luglio ad Algeri tra i governi dei due paesi, ma non per discutere sulle pratiche repressive attuate del governo nordafricano nei confronti degli oppositori politici. Tebboune è stato contestato fuori da palazzo Chigi da un gruppo di connazionali che ha lanciato uova e pomodori verso le auto e la delegazione che lo accompagnava, senza che la notizia abbia portato a un approfondimento sulle motivazioni del gesto dimostrativo. Italia e Spagna proseguono nel consolidamento delle relazioni commerciali con l’Algeria, escludendo dalle negoziazioni il rispetto dei diritti umani tanto nel paese nordafricano, quanto per chi giunge nei territori europei per fuggire dalla morsa della crisi economica, politica, sociale e della repressione governativa. Fuggire può costare anche la vita. I percorsi maggiormente utilizzati sono quelli via mare con piccole imbarcazioni verso Spagna e Italia. Domenica 15 maggio 2022 è stata segnata da due tragici eventi, due naufragi in cui hanno perso la vita almeno 15 persone. Al largo delle coste di Tipaza (Algeria occidentale) sono stati recuperati 11 corpi, facevano parte di un gruppo di 16 persone che tentava di raggiungere le Baleari, tra cui donne e bambini. Durante la stessa giornata sono stati ritrovati 4 corpi che il mare ha riportato sulle spiagge di Annaba, probabilmente appartenevano a un gruppo di circa 20 persone salpate dalle coste algerine pochi giorni prima per raggiungere la Sardegna, e di cui non era giunta alcuna conferma dell’arrivo. Secondo i dati del collettivo Caminando Fronteras, nel 2021 sono 22 le persone decedute e 169 quelle disperse nel tratto di mare tra Algeria e Spagna. Si tratta comunque di numeri sottostimati poiché difficilmente quantificabili, mentre riguardo la rotta italiana i dati delle vittime sono ancora più incerti.  Riteniamo indispensabile che venga garantita la libertà di movimento e in sicurezza per chiunque. Lottare per un futuro migliore non può e non deve essere considerato un crimine. Ci uniamo alle richieste delle 38 associazioni algerine: Basta repressione e libertà e giustizia per i detenuti di opinione!   Foto di copertina di Laddh