Da diversi anni si discute sull’apertura di un centro di detenzione per il rimpatrio in Sardegna, da quando il cd. decreto Minniti-Orlando (D.l. 13/2017) aveva previsto di istituirne uno in ogni Regione.
Dopo le false partenze annunciate negli ultimi mesi, oggi, lunedì 20 gennaio 2020 è prevista l’apertura ufficiale del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) a Macomer, il nono in Italia (otto sono già operativi, il decimo è in progetto di apertura a Milano).
In Sardegna l’apertura del Cpr ha trovato il pieno consenso politico degli amministratori regionali e locali coinvolti, presentato come strumento di deterrenza per lo sviluppo della rotta Algeria-Sardegna, attraverso la quale per lo più algerini, ma anche tunisini e libici, salpano dalla zona di Annaba per giungere sulle coste sud-occidentali dell’isola a bordo di piccole imbarcazioni.
A sostegno di tale tesi ha giocato la narrazione mediatica puntualmente orientata alla costruzione di una “emergenza sbarchi”. Sebbene dall’inizio del 2020 siano già arrivate 172 persone dall’Algeria, gli sbarchi del 2019 (circa 750) erano già in forte calo dal 2017, quando arrivarono in Sardegna quasi 2 mila persone. L’isola non è la destinazione finale per la maggior parte di loro, ma è territorio di transito, dato che vi rimangono giusto il tempo di ricevere il decreto di espulsione con accompagnamento al porto per lasciare il territorio (il cd. foglio di via). Negli anni, solo alcuni di loro sono stati trasferiti in Centri per il rimpatrio già attivi. Ma da oggi tale procedura potrebbe divenire la nuova prassi, e non solo per chi dall’Algeria giunge irregolarmente nell’isola, ma per tutti coloro che per vari motivi si trovano in condizioni di non poter rinnovare il proprio permesso di soggiorno senza aver commesso alcun reato (fattispecie molto comune ormai dopo l’entrare in vigore del primo decreto sicurezza che ha impedito il rinnovo di numerose tipologie di permesso di soggiorno) o chi, dopo avere già scontato un periodo di reclusione sarà nuovamente privato della libertà per essere identificato in vista del rimpatrio.
La struttura individuata a Macomer per essere adibita a Cpr è un ex carcere, chiuso perché non possedeva neppure i requisiti minimi previsti dalla legge per la detenzione, ma ora, dopo una prima fase di ristrutturazione sarà destinato a trattenere 50 persone e si giungerà a 100 alla conclusione dei lavori. La notizia dell’imminente apertura del Cpr è stata accompagnata dalle dichiarazioni degli amministratori locali che l’hanno accolta con favore, considerandola come occasione di sviluppo per il territorio, aggrappandosi ai pochi posti di lavoro derivanti dai servizi di cui avranno necessità le persone trattenute nel Centro e nelle possibili ricadute positive per l’arrivo delle forze dell’ordine.
Per il territorio del Marghine si tratta dell’ennesima servitù dello Stato italiano che lascia briciole nella ex zona industriale del centro Sardegna. Briciole per sfamare pochi lavoratori il cui scopo è quello di trattenere in prigione altri disperati senza un documento di soggiorno ma che combattono la stessa guerra per i diritti, la dignità e il lavoro.
Il sistema di affidamento a privati della gestione dei Centri di detenzione amministrativa per stranieri comporta il prevalere delle logiche di mercato, traducendosi nella riduzione della qualità dei servizi erogati e nella frequente violazione del rispetto dei diritti fondamentali delle persone ristrette.
In questo caso è stata la società Ors Italia, filiale del Gruppo Ors che gestisce centri per migranti in Svizzera, Austria e Germania ad aggiudicarsi l’affidamento per la gestione del Cpr di Macomer. Pare che la decisione di espandere le attività in Italia derivino dalla imminente inversione di rotta del governo austriaco che ha annunciato la chiusura del sistema degli appalti privati. La società è stata, inoltre, al centro di polemiche sulla mala accoglienza di un megacentro austriaco (gestito secondo il modello delle carceri private statunitensi: taglio dei costi e massimizzazione del profitto) ed è stata oggetto di un’inchiesta giornalistica sull’intreccio globale di politica e finanza che si cela dietro il gruppo Ors e la filiale Italiana.
Quindi, se per gli amministratori locali l’obiettivo dell’apertura del Cpr è il risveglio economico del territorio, attenzione! Perché la realtà sarà ben diversa. Infatti, queste strutture rappresentano notoriamente un pesante costo sociale ed economico per le collettività e di sofferenza per chi vi è trattenuto. Inoltre, i rappresentati della comunità macomerese dovrebbero porre l’attenzione non solo sulla sicurezza dei propri concittadini, rassicurandoli sulla natura carceraria del nuovo centro, che, quindi, manterrà in stato di reclusione le persone che vi saranno rinchiuse, ma dovrebbero invece essere consapevoli di quanto accade all’interno dei Cpr, delle continue violazioni di diritti segnalate e accertate anche dai monitoraggi istituzionali e ritenersi responsabili per quanto accadrà nel centro che hanno accettato di attivare nel proprio territorio.
A riprova dei danni prodotti ai territori, ricordiamo che la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’interno sono stati condannati per avere danneggiato l’immagine della città di Bari a causa dei “trattamenti inumani e degradanti praticati in danno dei detenuti” nel Cie (ora Cpr) di Bari e per essere rimasti inerti di fronte alle numerose segnalazioni di verifica sulle le condizioni in cui versavano le persone trattenute nel Centro, considerato non idoneo all’assistenza dello straniero e alla piena tutela della sua dignità in quanto essere umano. “Il danno all’immagine si giustifica alla luce di quella che è una normale identificazione, storicamente provata, tra luoghi ove si perpetrano violazioni dei diritti della persona e il territorio che li ospita”, (Tribunale di Bari, sentenza n. 4089 del 10 agosto 2017).
Nei Cpr i cittadini stranieri irregolarmente presenti sul territorio sono reclusi in attesa dell’espulsione, misura che dovrebbe essere una eccezione, ma che invece si è trasformata in regola, tanto che da oltre 20 anni questi centri sono luoghi di privazione della libertà in cui vengono perpetrati soprusi, violenza fisica e psicologica.
Dall’apertura dei CPT (Centri di permanenza temporanea), creati dalla Legge Turco-Napolitano nel 1998, non si sono fatti passi in avanti. Tali centri hanno cambiato nome, passando da Cpt a Cie a Cpr, ma la sostanza non è cambiata. Le condizioni del trattenimento continuano a essere inumane e la loro funzione resta comunque fallimentare, visto che meno della metà delle persone trattenute sono effettivamente rimpatriate, il 43% nel 2018. Dato che conferma l’inopportunità di mantenere aperte tali strutture anche dal punto di vista dei costi economici oltre che sociali.
La Campagna LasciateCIEntrare riceve costantemente richieste di aiuto dalle persone recluse nei Cpr operativi: Torino, Palazzo San Gervasio (Potenza), Brindisi-Restinco, Bari, Trapani, Ponte Galeria (Roma), Caltanissetta, Trapani e Gradisca d’Isonzo (Gorizia), riaperto da circa une mese. Vengono segnalate violenze, abusi, trattenimento in isolamento, negazione di varie forme di assistenza, anche sanitaria e del diritto alla difesa. Alle ripetute richieste di accesso della società civile sono seguiti altrettanti rifiuti, tanto è vero che ormai è praticamente impossibile far accedere giornalisti e attivisti per accertare le condizioni all’interno de centri. La situazione è costantemente critica.
Il 18 gennaio a Gradisca d’Isonzo si verifica l’ennesima morte. Un giovane georgiano muore in seguito al pestaggio delle forze dell’ordine avvenuto all’interno del Centro, secondo quanto riportato dai compagni del centro. Una settimana prima a Caltanissetta, a Pian del Lago, si è verificata la prima morte di Cpr del 2020. Aymed, tunisino di 34 anni, trattenuto da oltre 9 mesi, è deceduto “di cause naturali” secondo il medico legale, ma secondo quanto raccontato dai testimoni, invece, Aymed non avrebbe ricevuto cure adeguate. Alla sua morte è inevitabilmente esplosa la rabbia dei compagni reclusi, fino a causare l’incendio di buona parte del centro.
Ma già in precedenza erano state segnalate le condizioni inumane in cui versava la struttura.
Il 2020 si era già aperto con le rivolte nei Cpr di Milo (Trapani) e di Torino, tentativi disperati di lotta per la libertà e per far giungere all’esterno la voce dei trattenuti.
Rabbia, rivolte, fiamme, disperazione, atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, scioperi della fame, violenze subite e perpetrate contro sé stessi e contro l’ambiente circostante. Questa è la condizione di vita permanente all’interno dei Cpr.
Dal Cpr di Torino le proteste e gli atti di autolesionismo proseguono dallo scorso luglio dopo la morte di Faisal, trentaduenne bengalese, ma non si tratta della prima morte avvenuta nel centro in vent’anni di attività. Più volte ne è stata chiesta la chiusura.
Le carenze strutturali dei centri nonché il raddoppio dei termini di trattenimento amministrativo (ora 180 giorni) previsto dal Decreto sicurezza 1 (L. 132/2018) e l’impossibilità di un trattamento dignitoso contribuiscono a elevare i livelli di tensione, alimentando lo scoppio di proteste, puntualmente represse pesantemente dalle forze dell’ordine, cui segue ciclicamente l’inagibilità di alcune aree e, come spesso accade, se va bene, si viene trasferiti in centri di altre città, se va male, si continua a vivere nella stessa struttura stipati nelle aree “rimaste agibili”, rendendo ancora più precarie le condizioni del trattenimento. Situazione che accomuna i diversi centri.
Le varie forme di protesta si susseguono ininterrottamente in tutti i Cpr, da Torino a Caltanissetta, da Bari, a Trapani, Gradisca, Brindisi, Ponte Galeria. Anche se salgono alla ribalta mediatica solo sporadicamente, si tratta di una condizione permanente. Centinaia i casi di autolesionismo, diversi i morti, quotidiane le violenze. Non sono eventi isolati.
Sulle numerose testimonianze degli abusi viene tempestivamente inviata documentazione dettagliata al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, che nei suoi rapporti ha segnalato le diverse criticità per lo più rimaste inascoltate.
Nel corso degli anni, lo stesso Garante ha rilevato la situazione indegna in cui si vive nei Cpr, nei quali non sono garantite neanche le condizioni di vivibilità e del rispetto dei diritti delle strutture di tipo penitenziario “classico”.
Il decreto legge 13/2017, che ha allargato la rete dei Centri per il rimpatrio prevedendo l’apertura di un Cpr in ogni regione, ne ha delineato, sulla carta, la nuova configurazione di luoghi in cui garantire il rispetto della dignità umana, ribadendo anche il ruolo di verifica del Garante − a tal proposito, in vista dell’apertura del Cpr a Macomer è importante ricordare che il Consiglio Regionale della Sardegna non ha ancora provveduto a nominare il Garante regionale, nonostante sia previsto dalla legge regionale n. 7 del 2011. Ma come ha rilevato il Garante nazionale in seguito alle visite effettuate nei Cpr, l’impegno per il rispetto dei diritti fondamentali degli individui è rimasto solo dichiarazione di principio al quale “non è seguito un reale miglioramento delle condizioni di vivibilità e/o una diversa impostazione organizzativa delle strutture”. Il Garante ha anche evidenziato che il Ministero dell’Interno non ha mostrato alcuna attenzione alle criticità rilevate nei rapporti e alle raccomandazioni formulate per il loro superamento.
Alcuni dei nodi critici segnalati dal Garante tuttora persistenti riguardano “le scadenti condizioni materiali e igieniche delle strutture, assenza di attività, mancata apertura dei Centri alla società civile organizzata, scarsa trasparenza a partire dalla mancanza di un sistema di registrazione degli eventi critici e delle loro modalità di gestione, non considerazione delle differenti posizioni giuridiche delle persone trattenute e delle diverse esigenze e vulnerabilità individuali, difficoltà nell’accesso all’informazione, assenza di una procedura di reclamo per far valere violazioni dei diritti o rappresentare istanze” (Garante nazionale, Relazione al Parlamento 2019).
Appare chiaro come, dopo oltre 20 anni di esperienza, il sistema della detenzione amministrativa per i migranti non funzioni. È di fatto un sistema irriformabile e rappresenta il fallimento di una politica migratoria totalmente sbilanciata nell’ambito securitario, incapace di gestire gli ingressi e le presenze di cittadini stranieri nel territorio italiano ed europeo nel rispetto dei diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti a ciascun individuo.
Nessun altro Cpr deve vedere la luce.
Tutti i Cpr devono chiudere definitivamente.