di Yasmine Accardo – Sono sempre più frammentarie le informazioni che riceviamo da chi si trova detenuto nei CPR. Ponte Galeria, Macomer, Palazzo San Gervasio, Gradisca, Caltanissetta e gli altri
Spiccano al solito le storie di chi, ancora una volta, vi si ritrova recluso con varie e diverse vulnerabilità fisiche e psichiche. Come S. che nonostante una patologia cronica con cui si batte da anni, una volta entrato al CPR di Ponte Galeria non ha nemmeno subito ricevuto gli anticoagulanti che utilizzava con frequenza costante. Ha dovuto attendere qualche giorno, una visita in ospedale per poter ricordare al mondo che “lì fuori” aveva un nome, una vita e i suoi farmaci. In quella perenne attesa di tornare a essere stanno le centinaia di persone recluse in Cpr. S. teme che senza adeguate cure possa rischiare di avere una trombosi e che il suo già precario equilibrio fisico (e psichico) crolli definitivamente. Come lui decine di altri perdono il diritto a essere, qui, proprio qui.
In questi giorni diversi sono stati fortunatamente liberati, altri rimpatriati, tra questi in prevalenza cittadini egiziani, altri ancora sono riusciti a fuggire. Altri aspettano di dover dimostrare di essere attraverso certificati di domicilio, certificati medici, promesse di lavoro.
Dimostrare di essere!
Un turnover che rappresenta una macchina ben oliata, talvolta con qualche “difetto di fabbrica”, ma che non smette di girare nemmeno quando i Cpr vengono chiusi per un po’.
Alla domanda “come va?” A. risponde: “come vuoi che vada qui dentro? Ci porteranno senza dubbio la pizza. Ogni giorno qualcuno tenta il suicidio o si taglia perché non ce la si fa più”.
Le giornate passano tra una rivolta e l’altra per il cibo scadente, la mancata assistenza sanitaria, la sospensione impossibile tra una convalida di trattenimento, un riesame, una proroga del trattenimento, il volo per il rimpatrio o la liberazione con quel che resta della propria vita in un sacco.
All’esterno altisonanti le parole del Ministro Piantedosi che continua a ripetere di aperture in ogni regione, come in Campania, dove ha tuonato il nome di un cpr a CastelVolturno.
I CPR sono gli “sparire qui” che piacciono tanto ai vari governi che si sono susseguiti nel tempo in Italia, mai messi davvero in discussione. Stanno li con nomi, luoghi, forme e gestioni diverse, una sorta di monumento al delitto persistente.
Ogni singola persona che ci contatta ha subito un delitto atroce, quasi archiviato, sempre meno citato: la perdita della libertà individuale che si protrae anche una volta che dal Cpr si esce.
B. finalmente libero in treno aspetta di affrontare l’ennesimo incontro con i referenti dell’ufficio immigrazione, per un’ennesima schedatura, una sorta di coda di Minosse sul prossimo girone dell’inferno in cui entrare: “avrò finalmente un documento? in quanto tempo? e se non me lo danno, che fanno mi riportano qui? mi toglieranno di nuovo le mie medicine”.
Il CPR è un luogo così lontano, così lontano che sembra quasi sparire, sparire qui, per chi è al di qua del muro; per chi ci sta dentro è il sistema del gioco dell’oca, che non finisce, che si autoalimenta in continuazione. “ Una trappola per topi” ripete ancora una volta M.
Il CPR è costruito dai mattoni che hanno ammazzato Satman Singh, nei campi di sfruttamento, che hanno sbattuto fuori casa Lima perché non poteva pagare “il padrone” con il lavoro richiesto, che hanno abbandonato Cherf una volta raggiunta l’età dei 18 anni, che hanno ucciso Bamba, Mohammed, Saleh mentre cercavano di camminare oltre frontiera, che hanno nascosto i nomi dei 34 corpi restituiti dal mare dopo l’ennesimo naufragio del 17 giugno di quest’anno. Quei mattoni vanno disintegrati uno a uno in uno scenario in cui questo governo continua a costruire strumenti di oppressione e morte sotto la parola “sicurezza”.