Campagna LasciateCIEntrare – Cosenza, 25 giugno 2016
Delegazione costituita da Luca Mannarino (attivista) , Emilia Corea, Francesco Cirino (Ass. La Kasbah), Maurizio Alfano (attivista).

Perché ad un cittadino viene vietato l’accesso ad un determinato luogo? Secondo quale assurda logica nessuno può controllare eventuali abusi di potere perpetrati all’interno di quello stesso luogo? Quando e come si è creato tale enorme gap democratico? Per quanto ancora dovremo accettare che i soliti opportunisti riescano a fare soldi sulla pelle dei migranti?

Questi sono alcuni dei tanti interrogativi che puntualmente ci poniamo in occasione delle nostre visite all’interno dei centri di accoglienza.

Capita, però, che tali interrogativi non trovino risposta (quantomeno, non da chi dovrebbe fornirla). Capita che i Centri di Accoglienza Straordinaria, così come i CIE, i CARA, gli Hot Spot e gli Hub siano zone in cui l’accesso civico viene vietato.

Capita che la Prefettura competente ordini espressamente ai gestori di tali centri di vietare l’ingresso ai referenti di una campagna portata avanti da liberi cittadini, che vuole ottenere trasparenza sugli enti gestori, sugli appalti, sul numero di migranti che vengono ospitati e sulle modalità con cui si perpetra tale accoglienza.
E così, è capitato che la direttrice del nuovo CAS di Camigliatello Silano, Cinzia Falcone, aspettasse la nostra visita e, soprattutto, che la Prefettura di Cosenza le avesse ordinato di non fare entrare nessun membro delle nostra delegazione.

L’ennesimo Centro di Accoglienza di Camigliatello, in cui sono ospitati 38 uomini e 12 donne, è stato aperto all’incirca poche settimane fa ed è gestito dall’Associazione Nazionale Interculturale Meridionale.

Al nostro arrivo troviamo una troupe della RAI regionale, arrivata sul posto dopo aver ricevuto, così ci dicono i due giornalisti, una segnalazione relativa alla promiscuità e alle pessime condizioni di vita all’interno del centro. Segnalazione analoga a quella ricevuta dal vicesindaco di Spezzano, Aurora Crocco, che decide di accompagnarci.

Così, dopo aver congedato la troupe della RAI, la direttrice ci fa accomodare solo nell’area comune del centro. Qui, come sempre accade, ci racconta, nonostante le difficoltà dovute al momento di assestamento, di una gestione assolutamente perfetta. E così ci fa immediatamente vedere le dispense zeppe di fette biscottate, creme, saponi, detersivi, perfettamente ordinate, e gli scatoloni con scarpe e vestiti che loro stessi hanno comprato su internet, appena arrivati. Continua, dunque, la sua descrizione, raccontandoci che, dopo una fase iniziale in cui il cibo, portato al centro dal ristorante “Il Nibbio”, non veniva gradito dagli ospiti, hanno fatto redigere agli stessi migranti un menu settimanale che, purtroppo, solo da ieri sera, hanno iniziato a servire. Il welcome bag (kit di prima accoglienza) è stato dato a tutti gli ospiti, così come 8 schede telefoniche per le chiamate internazionali e un punto internet sempre a loro disposizione all’interno della cucina in cui ci ha fatto entrare.

Ci racconta ancora di tutti gli iter relativi ai controlli sanitari e al rilascio del permesso di soggiorno temporaneo che, a quanto pare, sono stati tutti avviati, ma per i quali attendono risposte da parte dell’ASP di Castrovillari e della Prefettura. Intanto, ci tiene a sottolineare, alcuni migranti hanno richiesto dei test sanitari “preventivi”, e, i prelievi fatti all’interno del centro stesso, sono stati pagati dai gestori. All’interno della struttura,continua la direttrice, lavorano 2 mediatori culturali, 1 operatrice per le pulizie che, ci dice, pulisce tutto quotidianamente, operatori notturni e diurni, 1 psicologo (una volta a settimana). Il pocket-money dovuto è stato distribuito a tutti gli ospiti e il martedì della settimana seguente inizieranno i corsi di italiano all’interno dell’oratorio del paese.

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Il racconto idilliaco inizia a scricchiolare quando ci racconta di un appartamento dedicato alle donne e 3 agli uomini: facendo dei rapidi calcoli, questo significa che in ogni appartamento dovrebbero co-abitare almeno 12 persone e, considerando le dimensioni della struttura, veramente ridotte per 50 persone, non ci sembra che gli spazi vitali siano così ampi. Le nostre perplessità si aggravano quando ci permette di vedere un altro appartamento, non ancora abitato, che vorrebbero generosamente concedere ad almeno 5 migranti: quando gli viene fatto notare che gli spazi visionati sono estremamente limitati, la prima risposta, che ci viene data da un operatore-ingegnere che ha assistito a tutta la nostra chiacchierata, è: “li avessero molti italiani tutti questi spazi”.

Usciti all’esterno parliamo, dunque, con i ragazzi, provenienti da Ghana e Nigeria, i quali, invece, ci danno una versione totalmente opposta rispetto a quella degli operatori. Pare, infatti, che almeno 12 persone siano costrette a dormire sul pavimento, che non abbiano ricevuto alcuna scheda telefonica, né possano usufruire di alcuna rete internet. Le stanze, ci dicono, vengono lavate da loro stessi nei momenti in cui l’acqua è presente: pare, infatti, che spesso la stessa manchi. Per quanto riguarda il cibo, inoltre, il famoso menu è stato da loro compilato agli inizi della settimana ed ancora nulla di quanto segnato è stato loro servito: ci raccontano, invece, di una protesta fatta la sera precedente perché potessero ricevere degli alimenti a loro graditi. Andiamo via con l’idea di ritornare al più presto e con in mente gli occhi e la frase di un ragazzo che per l’ennesima volta ci sentiamo ripetere: “non sappiamo quali siano i nostri diritti, aiutateci”.

Un’ulteriore tappa del nostro giro avrebbe previsto la visita all’interno del centro di accoglienza straordinaria di Castiglione Cosentino, gestito dalla Cooperativa “Il Delfino”. All’arrivo, incrociamo un operatore intento a scaricare della roba da un furgone supportato da alcuni migranti. Lo informiamo del fatto di essere privi di autorizzazione da parte della Prefettura a visitare il centro, e di essere intenzionati, così come di prassi, a parlare con gli operatori e le persone ospiti. L’operatore ci informa che è suo dovere contattare il responsabile del centro, Pietro Spadafora, il quale, telefonicamente, ci intima di allontanarci dalla struttura in quanto sprovvisti di autorizzazione. Facciamo presente al “cortese” responsabile che non può impedirci di parlare con i richiedenti asilo fuori dai cancelli della struttura. “No, io non vi autorizzo a farlo” tuona il responsabile del centro, “questa è casa mia, non potete parlare con i migranti né dentro né fuori di qui”.

Decidiamo, infine, di far visita al CAS di Carolei, aperto da circa 4 mesi, e gestito dalla cooperativa Trichi di Paola in un’ex convento di proprietà della Caritas. Anche in questo caso veniamo accolti da un operatore il quale ci invita ad entrare e a visitare la struttura. Il fabbricato è abbastanza grande, e le 25 persone che sono ospitate all’interno (provenienti da Afghanistan, Iraq, Pakistan, Somalia, Guinea, Nigeria) hanno abbondante spazio vitale: le stanze, infatti ospitano un massimo di 3 persone.

L’operatore ci dice che tutti i ragazzi, eccetto i 5 nigeriani trasferiti da pochi giorni, sono iscritti al Servizio Sanitario Nazionale, tutti hanno il permesso di soggiorno temporaneo e molti sono stati ascoltati dalla Commissione Territoriale competente. Alcuni, inoltre, pare abbiano la carta d’identità italiana. All’interno del centro, continua l’operatore, lavorano 2 operatori diurni e 2 notturni, 1 cuoco, 1 operatore per le pulizie, 1 operatore sanitario e 1 legale, oltreché 1 coordinatore. Hanno attivato dei corsi di italiano quotidiani, personalizzato il menu settimanale in relazione alle diverse nazionalità presenti, con pizza domenicale, donato a loro spese un abbonamento (i ragazzi ci dicono per 11 giorni al mese) per il pullman che da Carolei arriva a Cosenza.

Diverso è, invece, il racconto dei ragazzi all’uscita del centro. Lamentano, infatti, la pessima qualità e quantità del cibo (il menu che ci è stato fatto vedere pare non venga rispettato): viene dato loro quasi sempre riso e pollo, nessun tipo di frutta, che sono costretti a comprarsi da soli, 1 l di latte per 6 persone, e non gli viene concesso altro cibo al di fuori degli orari dei pasti (la cucina viene, infatti, chiusa a chiave). A riprova di quanto affermato, mentre parliamo, un ragazzo ritorna dal supermercato locale dopo aver acquistato tonno e banane con il pocket-money ricevuto. Ci riferiscono di non aver avuto scarpe né abbigliamento idoneo e che, alla loro minima protesta gli viene replicato: “questo non è uno SPRAR”. Una serie di disagi, dunque, acuiti dalle ultime gravi situazioni riferiteci dai ragazzi: pare, infatti, che sia loro vietato uscire dalle 22.00 in poi, il portone della struttura viene chiuso con un lucchetto. Riferiscono, inoltre che l’avvocato del centro ha più volte minacciato di chiamare la polizia, ogni qual volta hanno tentato di protestare a causa delle lungaggini burocratiche o del cibo inadeguato che viene loro somministrato.

A distanza di qualche settimana riusciamo a ottenere un colloquio con il gestore della cooperativa, Marco Vommaro, il quale ci conferma che si è verificato qualche disagio nelle settimane passate soprattutto in merito alla somministrazione della frutta durante i pasti ma che il problema sia ormai risolto. Lo stesso ci conferma, inoltre, la consuetudine di chiudere con un lucchetto il portone della struttura tutte le sere allo scopo di evitare, a suo dire, l’ingresso nella struttura di soggetti indesiderati durante le ore notturne. Smentisce, però, tutte le voci relative alle minacce ricevute dai ragazzi. Ci congediamo, dunque, con il nostro impegno, seguito dal suo invito, a ritornare nel centro a controllare nuovamente la situazione.

La sera stessa veniamo a conoscenza, però, di un fatto grave verificatosi nei giorni precedenti, e di cui il gestore ha evitato di raccontarci. Uno degli ospiti è stato, infatti, “costretto” a firmare un sorta di revoca dell’accoglienza in seguito a un alterco con un operatore scaturita da una sua richiesta di fare colazione fuori dall’orario previsto per la somministrazione dei pasti. L’operatore in questione, ci viene riferito dal ragazzo, e confermato successivamente dal gestore, ha immediatamente chiamato le forze dell’ordine e, sotto la minaccia della loro presenza, costretto il ragazzo alla firma del documento. Nello stesso documento, che non ha alcuna valenza legale, scritto in italiano e firmato senza l’ausilio di un mediatore linguistico, il ragazzo dichiara (ovviamente senza saperlo) “di voler lasciare il centro “San Luigi Gonzaga”. Dopo numerosi richiami verbali – continua il documento – si è costretti a invitarlo a lasciare il centro perché l’ospite non rispetta le regole della struttura”. Decidiamo, dunque, di metterci immediatamente in contatto con il direttore del centro per capire come sia possibile che siano stati chiamati i carabinieri e che un richiedente asilo sia stato "messo alla porta" per un motivo tanto futile. Il direttore del centro si dice rammaricato per quanto verificatosi in sua assenza nel centro e si dice disposto a "riammettere" il ragazzo nella struttura, rassicurandoci che nessuna conseguenza ne sarebbe derivata. Il sincero rammarico viene, però, “macchiato” dalla sua ammissione relativa al fatto che se non fossimo intervenuti lui non avrebbe fatto nulla per risolvere la situazione venutasi a creare.

Il giorno dopo, lo stesso migrante ci contatta per riferirci che gli screzi con taluni operatori non sono cessati. Decidiamo, quindi, di recarci sul posto e di parlare con l’operatore in questione. Veniamo accolti con un atteggiamento arrogante da parte dello stesso, anche nei nostri confronti, e sbeffeggiati dal cuoco il quale assiste al tentativo di colloquio con l’operatore. Nella stessa giornata apprendiamo che circa 5 giorni fa un altro ragazzo di nazionalità pakistana è stato allontanato dalla struttura, sempre previo intervento delle forze dell’ordine, in seguito a una protesta derivante dalla richiesta, negata, di mangiare un secondo piatto di riso. La notizia ci viene confermata, ancora una volta, dal direttore del centro adducendo, come giustificazione, un comportamento particolarmente irascibile da parte del migrante.

Insomma, anche questa volta siamo costretti a registrare storie e situazioni che ci lasciano al tempo stesso confusi e furiosi. Nei tanti centri di “malaccoglienza ordinaria” che si stanno moltiplicando sul nostro territorio non importa la qualità del servizio offerto (se mai venisse offerto), non importa la professionalità, la sensibilità e la capacità relazionale degli operatori, non importa il valore infinito di una vita umana. Ciò che importa è il tornaconto economico che la sola presenza di quella singola vita riesce a produrre; è riuscire ad utilizzare, manovrare, minacciare quelle stesse vite. Ciò che importa, a volte, è che si diano posti di lavoro, magari a persone con legami più o meno importanti. Ciò che importa è, soprattutto, che tutto quanto questo non esca fuori dai luoghi in cui ogni presenza “non allineata” è assolutamente bandita.

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