“Sono chiusi in stanze da otto persone. A nessuno di loro è stata data una mascherina o i guanti protettivi. Impossibile anche solo pensare di mantenere la distanza di sicurezza negli spazi comuni o nella mensa. E gli operatori sociali e le forze dell’ordine attorno a loro sono nelle stesse identiche condizioni”. Così si sfoga Carla Livia Trifan, 22 anni, romana, operatrice sociosanitaria in attesa di occupazione, che ha contattato LasciateCIEntrare in seguito all’appello per una sanatoria dei migranti irregolari lanciato dalla nostra associazione e da Legal Team Italia, Progetto Melting Pot Europa e Medicina Democratica.
“Tenerli in queste condizioni non ha nessun senso e rischia solo di far espandere ancora di più il contagio. O li liberano tutti o li sistemano in un posto sicuro”. Carla si riferisce ai migranti “ospiti” del centro Ponte Galeria a Roma: 40 donne e 75 uomini, compreso il suo fidanzato. “Lo hanno fermato il 3 marzo – racconta -. Appena l’ho saputo ho chiamato la polizia per chiedere spiegazioni. Lui è nato in Tunisia ma vive in Italia sin da quanto aveva 14 anni. Ora ne ha 26 ma non è ancora riuscito ad ottenere la cittadinanza italiana. La polizia mi ha detto di stare tranquilla, che era solo un controllo, ma intanto lo avevano già portato al centro”.
L’iter per il suo rilascio si complica con l’arrivo della pandemia. Le date del processo slittano a non si sa quando. Intanto lui è ancora dentro. Carla va portargli vestiti puliti e generi alimentari. “Gli servono cibo scaduto che puzza. Chi può si fa fare la spesa dagli operatori o si fa aiutare dagli amici fuori”. Ma il 18 marzo entra in vigore il decreto di chiusura sanitaria e le porte di Ponte galeria vengono sbarrate. “Sono andata a portargli un po’ di cibo. Avevo la mascherina, i guanti e l’autocertificazione. Sono stata fermata dalla polizia che mi ha spiegato che la mia non si poteva considerare una emergenza e mi mi hanno minacciato di denuncia. Tra l’altro, loro non avevano né guanti né mascherine e mi si sono avvicinati a meno di un metro di distanza”. Adesso, Carla può sentire il suo fidanzato solo per telefono. Lui ha una scheda, che si paga, con la quale la può chiamare una volta al giorno da una cabina situata dentro la struttura. “Mi ha detto che un ragazzo che stava là è stato trovato positivo. Ora è in isolamento. Ma quanto ci metteremo a capire che, con questa epidemia, liberarli tutti è l’unica cosa da fare?”