Di Stefano Galieni
Partiamo da un punto di vista credo condiviso: quanto sta accadendo nel mondo, non solo sulle coste europee, in questi mesi, in quest’ultimo biennio, finirà sui libri di storia. Una catastrofe umanitaria, generata dagli uomini e dalle loro logiche di potere, dalle loro leggi e dalla loro pochezza umana, di queste dimensioni, è paragonabile solo a quanto accaduto con la Seconda guerra mondiale o, per certi versi, alle fasi più sanguinarie dei periodi coloniali. Ed ha un senso profondo parlare di coloro che varcano le frontiere, con il loro carico di vita distrutta, come a dei nuovi partigiani. Lo ha per ragioni, non retoriche o legate alla individuale visione politica, ma alla concretezza della Storia da cui poco si impara.
Presi come siamo, dalla vita in stato di emergenza perenne, da accadimenti che si sovrappongono uno dopo l’altro a cui si cerca di reagire con strumenti spesso inadeguati, dovremmo fermarci un momento e utilizzare uno spettro di riflessione più ampio, geografico e storico per proporre una analisi comparativa fra passato e presente, trovando nessi forse scomodi ma preziosi.
Già da tempo, una pubblicistica insidiosa prova a far passare un messaggio nefasto: «Perché dobbiamo accogliere chi fugge dalle guerre? Dovrebbero restare a casa loro a combattere contro chi li opprime come abbiamo fatto noi».
Un messaggio falso per numerose ragioni
Intanto sono tante e tanti che, nei rispettivi paesi cercano di lottare per non dover fuggire, si pensi a quanto accade in Palestina, nel Rojava, addirittura in Donbass, agli oppositori che vengono arrestati o che spariscono a migliaia in tanti e tanti paesi, nel silenzio mondiale più assoluto
Inoltre, come accadde per la nostra Resistenza, quella francese e non solo, le prime organizzazioni di lotta antifascista o antinazista, le organizzarono proprio esuli e fuggitivi che tentarono di pensare anche a spiragli di futuro, si pensi ai fratelli Rosselli uccisi in Francia, esempio di antifascismo quando gran parte dell’Italia ormai era fedele al regime. Accade anche oggi, accade che in Europa i rifugiati di tanti paesi comincino ad organizzarsi per pensare ad un futuro a casa, per un Eritrea Democratica, per una Palestina libera, per una Siria non dominata dal Daesh o da Assad, per una Turchia in cui ogni minoranza, culturale o politica, possa vivere rispettata e in pace.
E forse se questi paesi avranno un futuro, una nuova classe dirigente capace, una prospettiva di miglioramento generalizzato delle condizioni di vita di ognuno, dipenderà da come gli esuli che oggi arrivano nel cuore dell’Europa potranno trovare una propria agibilità, non solo accoglienza, assistenzialismo, sopravvivenza.
Nella barbarie che ci circonda riusciamo tranquillamente a non accorgerci che fra chi arriva, più che un costo o un pericolo potrebbero più facilmente celarsi coloro che il mondo migliore di cui tutti abbiamo bisogno, provano a costruirlo a sognarlo, a immaginarlo partendo dai conflitti e dalle crisi da cui sono fuggiti.
Nuovi partigiani che potrebbero – dipende anche da noi e dai nostri governi – decidere di divenire l’antidoto più formidabile a certe sanguinarie dittature, all’oscurantismo jahedista, al monopolio del potere di pochi. Non tutti certo, in molti fra coloro che fuggono hanno lo scopo primario quello di salvare la propria vita e quello della propria famiglia ma, poi, rapidamente, più di quanto il colonialismo di cui spesso siamo intrisi ci faccia pensare, al presente si sostituisce il bisogno di pensare al futuro. Un futuro che non è per forza un progetto di realizzazione individuale, di vita nell’oblio in un paese che resterà in fondo sempre straniero. Un futuro che potrebbe divenire politico nell’accezione più nobile del termine e portare a pensare ad una costruzione del ritorno. Il sogno di molti di loro, per questo, anche per questo sono partigiani.