Una vita normale, una quotidianità sicura finalmente, per suo figlio e anche per lei! Solo illusioni.
Tutto le crolla addosso nel giro di pochi minuti. Nove agenti di polizia le sfondano la porta di casa e l’aggrediscono. Prendono il piccolo come si prende un sacco di patate e li sbattono per strada. Tornate in Italia, le urlano. Era scappata dall’Italia proprio per paura che le togliessero il bambino, ci racconta A* disperata.
Viveva nel centro di accoglienza di una città che, per ora non nominiamo, per evitarle possibili ripercussioni. Giornate dure e difficili, sino a quando non era riuscita a trovare un modesto lavoro. La paga era misera, ma le era sufficiente a pagarsi una stanza in affitto assieme ad altre donne e a suo figlio. “Sono riuscita così a rinnovare il mio permesso per motivi umanitari in lavoro, ma lavoravo davvero troppo e tutti i giorni. Mi aiutavano le amiche in quel periodo. M* andava all’asilo ma avevo sempre paura che me lo portassero via” racconta. Cosa la spaventava tanto? “Il gestore ed un’operatrice sociale della struttura in cui alloggiavo si erano particolarmente legati a mio figlio. Gli hanno fatto da padrino e da madrina al suo battesimo e, persino quando uscii dal centro, lei continuava ad andare a prendere il mio bambino all’asilo e, a volte, lo teneva a casa con sé per più giorni. Diceva che lo faceva per aiutarmi”.
“Io lavoravo fino a tardi e – racconta la donna – tornare a casa sapendo di non trovarlo era un dolore immenso, ma era un dolore necessario per garantirgli una casa migliore, la possibilità di avere vestiti e il cibo. L’aiuto di quella persona era importante in quel periodo, altrimenti avrei dovuto rinunciare al lavoro e non avrei saputo come mantenere me e mio figlio. Poi il lavoro diminuì e riuscii ad andare a prendere mio figlio all’asilo sempre più spesso. Ma il piccolo si comportava in maniera strana. Sull’autobus non voleva starmi vicino, mi diceva che io ero troppo nera. Preferiva stare con l’altra famiglia e non con me. Vennero gli assistenti sociali a cercarmi e mi fecero capire che, secondo loro, non ero in grado di far crescere il mio bambino. La donna che andava a prenderselo all’asilo, voleva tenerselo per sé e più volte mi disse che lei era la persona più idonea e che io dovevo farmi da parte. Per questo motivo, spaventata, decisi di andare via dall’Italia e cercare di vivere in Germania”. Così A* arriva a Turingen, le viene dato un posto insieme al bambino, lei comincia a lavorare nuovamente. Forse il periodo oscuro è passato, si illude.
Non si sarebbe mai aspettata una simile improvvisa ed immotivata violenza contro una donna con un bambino di 3 anni! A* si tocca le braccia ripetutamente, sente ancora dolore ed il piccolo M* non riesce più a dormire la notte e piange spesso.
E’ un bambino che non riesce più a ridere, M*. Ci guarda serio serio e ci dice ”tu sei amico. La polizia no. Loro sono cattivi”. Per fortuna ha trovato un amico: anche lui ha 3 anni e una madre, F*, con una storia molto simile alle spalle. Le due donne si sono incontrate in aeroporto dove hanno condiviso le mutue storie della violenza subita dalla polizia tedesca e la paura. Entrambe hanno dolore alle braccia, sono esauste. Entrambe con una sola colpa: cercare di dare un futuro migliore ai loro figli. Quando sono partite dalla Germania la polizia di frontiera ha garantito che avrebbero trovato accoglienza in Italia, per effetto Dublino. Dublino? Le due donne hanno entrambe permessi di soggiorno regolare: una ha l’umanitaria, l’altra ha un permesso per motivi di lavoro. Dublino? Un Dublino “vagamente” inventato. Per cosa? Per far soldi? Considerando che i dublinati vengono pagati dall’Italia, in seguito agli accordi con la Germania?
Soldi e violenza. L’accoglienza che hanno trovato in Italia è sempre la stessa. La stessa che ben conoscono tutti coloro che sono passati per il nostro Paese: la strada!
Non sono le sole ad aver attraversato questa via crucis di ingiustizia. Sembra che la Germania abbia aperto una guerra silenziosa contro quei migranti, in possesso di permesso di soggiorno emesso in Italia, che vivono in quel Paese con prole a seguito. Le donne con minori molto piccoli, della media tra i 7 mesi ed i 3 anni, vengono di prassi dublinate in Italia. Appena arrivate, le due donne hanno scoperto che per loro non è stata attivata alcuna procedura “Dublino”. Non esiste nessun centro di accoglienza disposto ad accoglierle. Così hanno contattato noi che, insieme a Betta del Baobab e Marlene, ci diamo da fare per cercare una sistemazione di fortuna. Per fortuna, abbiamo trovato la disponibilità di Intersos che se ne è fatto carico in prima accoglienza, costruendo attorno a loro un piccolo mondo di attenzioni. A* e F* stanno, piano piano, riprendendo le forze ma si guardano intorno con sempre maggiore paura. I loro figli hanno visto le madri fermate da uomini in divisa con violenza e loro stessi sono stati prelevati dai letti senza riguardo. Il piccolo M*, benché abbia 3 anni ha lo sguardo di un uomo grande. Occhi tristi che sembrano sempre guardare lontano. Questa è la “sicurezza” che offriamo a donne con minori, nel paese marcondirondirondello? E che dire della “pulita” polizia tedesca che assale e aggredisce in 9 uomini una donna sola col suo bambino?
Sono storie che si ripetono nel silenzio ogni giorno. Sono storie che noi ci rifiutiamo di lasciare passare nel nulla. Pretendiamo il rispetto dei diritti di donne e minori, lesi con tale faciloneria e violenza indegne di Paesi civili. Ma siamo ancora Paesi civili? Noi continueremo a denunciare a tutti i livelli quanto avvenuto e percorreremo tutte le strade possibili perché A*, F* ed i loro figli ottengano giustizia.
Yasmine Accardo