In via di Boccea a Roma, appena dopo una curva, e di fronte ad un distributore di benzina, si colloca l’accesso all’attuale CAS Enea.
Il Centro era in precedenza gestito dalla cooperativa Tre Fontane, la quale ha perso l’appalto dopo l’inchiesta “Mondo di Mezzo – Mafia Capitale”. Dopo ben 8 anni di mala gestione, dal luglio del 2018 la gestione è passata alla Croce Rossa che dovrebbe avere l’appalto per ulteriori due anni. Usiamo il condizionale perché sulla questione dei bandi in questo momento vi è molta confusione, l’appalto andrà infatti avanti fino al 31 marzo in proroga al vecchio bando e probabilmente vi saranno proroghe mensili in attesa della “nuova forma” dei bandi secondo le direttive della Legge Salvini.
Temporaneità e precarietà sono dunque gli aggettivi che meglio descrivono quello che abbiamo visto presso il CAS Enea e che raffigurano i prossimi mesi: i servizi sono temporanei, precaria se non assente la progettualità, emergenziale l’accoglienza. Il limbo come norma.
L’entrata al centro porta ancora un cartellone dove campeggia la scritta “Protezione Civile”, un monito a ricordarci che l’emergenza non è mai finita, i vari attori impegnati nel sistema di accoglienza si sono messi d’impegno infatti a lasciarla tale, disastro dopo disastro. Nel 2019 lo stato d’emergenza è ancora qui, a suggellare l’incapacità dei governi che in questi anni si sono succeduti di organizzare in modo adeguato e rispettoso dei diritti fondamentali l’arrivo dei richiedenti asilo.
All’accesso si trova un gabbiotto dove vi sono due guardie giurate, che dopo aver chiesto “chi siamo?”, avvertono il responsabile del centro che prontamente arriva. Inizialmente ci viene detto che solo la Parlamentare può entrare e viene fatta parlare al telefono con il prefetto Leone. Eleonora Forenza gli ricorda che un parlamentare può fare visita con gli assistenti persino nei reparti del carcere del 41–bis. Ci viene concesso quindi di accedere.
Il tema dell’accesso ai centri d’accoglienza straordinaria o di espulsione (ora CPR) diventa sempre più urgente, in particolare per la nostra Campagna che non riesce più ad entrare in nessun luogo, perché da oltre due anni ci viene negato l’accesso, anche quando la richiesta viene formalmente inviata con tutta la documentazione necessaria. Il monitoraggio di quanto avviene nei centri continua attraverso le numerose segnalazioni che riceviamo dalle comunità migranti, dagli ospiti e dagli operatori; riusciamo ad entrare nei centri quando raramente sono disponibili parlamentari.
Negli ultimi mesi abbiamo registrato numerose chiusure di piccoli CAS e trasferimenti verso centri di capienza maggiore situati in zone molto lontane da quelle precedenti. Le persone sono trasferite dalla sera alla mattina, senza alcun criterio ragionevole: gruppi di amici vengono divisi, richiedenti asilo con percorsi avviati in un territorio si ritrovano a ripartire da zero in un luogo sconosciuto, donne con figli che avevano stretto rapporti di fiducia con operatori o intrapreso percorsi di sostegno sono trasferiti senza alcun riguardo. Si assiste ad un caotico gioco sulla pelle delle persone dove tutto viene buttato alla rinfusa dove capita, senza tener conto né dei percorsi fatti, né del precedente legame costruito con il territorio. Chi non è italiano semplicemente non viene considerato una persona portatore di diritti e desideri, ma è un oggetto sgradito che può essere traslocato dove la macchina del sistema lo mette, dove forse avrà il minimo necessario, un letto sotto un tetto in camere sovraffollate e del cibo scadente o avariato.
Lo mostrano chiaramente gli ultimi casi di Reggio Calabria, Lecce, Crotone e Castelnuovo di Porto.
Il CAS Enea è uno di quei luoghi in cui sono arrivati negli ultimi mesi con il nuovo ente gestore 316 persone, tutte provenienti da centri di zone diverse.
Torniamo alla visita. Ci incamminiamo verso l’entrata vera e propria del CAS accompagnati dal responsabile del centro.
Di fronte alla porta vi sono dei cassonetti della spazzatura. Alcuni degli ospiti ci dicono: “Li hanno svuotati stamattina, per mesi era stata accumulata spazzatura senza che venisse rimossa. Magari ci portate fortuna”.
Nel centro si trovano al momento 316 persone in accoglienza, la capienza massima è di 360 posti.
Le nazionalità presenti sono tante: ci sono armeni, russi, peruviani, pakistani, tunisini, marocchini, senegalesi, maliani, gambiani, nigeriani, un siriano. Oltre alle persone arrivate da altri CAS, qui vengono inseriti i richiedenti asilo dublinati arrivati direttamente da Fiumicino. Ci viene riferito dal responsabile che vi sono 50 operatori, tra cui diversi mediatori (8) e che al momento non c’è il mediatore di lingua urdu. Alcune persone ci dicono che in realtà i mediatori non si vedono mai ed i conflitti sono frequenti proprio per questa assenza. Indubbiamente in centri con così alto numero di persone la gestione dei conflitti non è semplice, anche con il migliore mediatore; rappresenta uno dei motivi per il quale, come Campagna, fin dall’inizio della nostra attività sosteniamo l’esigenza di un’accoglienza in cui si ponga estrema cura e attenzione all’individuo, di fatto impossibile in centri di grande capienza che rischiano di essere dei “ghetti” in cui gli individui vengono schiacciati e ridotti a numeri sul badge.
Ci viene riferito dal responsabile che sono presenti 15 soggetti vulnerabili che seguono terapia medica idonea. Tutti hanno l’STP o la tessera sanitaria e vengono seguiti sia da medici interni che esterni: in particolare i riferimenti per i vulnerabili sono gli ospedali San Gallicano e San Giovanni e l’associazione “Medici contro la tortura”. Lo staff medico ci dice che l’alta percentuale di persone concentrate in un luogo incide in modo negativo sulla condizione di vulnerabilità e peggiorano le condizioni di tutti aumentando i soggetti vulnerabili.
Parliamo anche con diversi ospiti del centro ed emergono molte lamentele: “L’acqua calda non funziona, al massimo è disponibile per due ore al giorno. Anche la corrente non ha funzionato per molto tempo al secondo piano. La luce non funziona di notte. Il riscaldamento non viene acceso e qui si gela!”.
“L’impianto della corrente elettrica non funziona e salta continuamente” ci spiega il responsabile, aggiungendo che stanno cercando di risolvere il problema.
La struttura è composta da 4 piani: 3 dedicati alle stanze per gli ospiti mentre il quarto piano è ad uso lavanderia. Ci sono solo 4 lavatrici di dimensioni piccole di cui una è rotta. Quindi tre lavatrici per 316 persone!
Ci sono alcune stanze con bagno e altre senza. Al terzo piano ci viene riferito che in 20 usufruiscono di un unico bagno (un water, un lavandino e una doccia) ed anche qui manca continuamente l’acqua calda. Sono presenti diverse famiglie con minori anche molto piccoli di diversa provenienza (russe, armene, peruviane, tunisine). Le famiglie si trovano al primo ed al secondo piano. Tra queste notiamo anche una donna nigeriana con minore con cui non riusciamo a parlare.
Le famiglie sono separate dagli uomini adulti da semplici porte che non si possono chiudere. “Le stanze sono prive di chiavi come vuole l’appalto” ci riferisce il responsabile, elemento che ci lascia interdetti e preoccupati, dal momento che nulla si frappone tra il dentro ed il fuori a proteggere in particolare i minori.
Riportiamo che la maggior parte dei componenti delle famiglie presenti sono in possesso di protezione umanitaria, permesso rilasciato precedentemente al decreto Salvini (che li vuole mettere in strada) e che quindi, non essendo il decreto retroattivo, avrebbero diritto all’accoglienza in posti SPRAR. Molti di loro si trovano qui da tempo e hanno diritto di accedere a progetti dedicati a famiglie. Tuttavia, il sistema della cosiddetta seconda accoglienza ha purtroppo evidenziato falle e lentezze, che hanno fortemente deprivato quelle persone che oggi con difficoltà riusciranno a far valere un diritto. Anziché risarcirle del tempo perso, rischiano la strada.
Entriamo nelle stanze di alcuni ospiti pakistani da poco in Italia, provenienti dalla Balkan Route che dopo aver subito angherie e violenze lungo quella rotta si ritrovano ora in stanze senza mobilio, in cui i letti non hanno lenzuola e nemmeno coperte calde. “Sono tre mesi che non ci danno il pocket money e non abbiamo la sim card, né la ricarica per telefonare. Non riusciamo a sentire i nostri parenti. Qui fa molto freddo ed è difficile comunicare con gli operatori, ci riusciamo solo perché uno di noi parla inglese. Quando siamo arrivati ci hanno dato solo un giubbino e le scarpe. Le cose che abbiamo addosso sono quelle con cui siamo arrivati: non ci hanno dato nulla. Alcuni di noi sono molto fragili e vorrebbero uccidersi. Siamo disperati”.
I medici ci confermano che ci sono stati diversi atti di autolesionismo. La disperazione ed il senso di isolamento sono palpabili. “Sono in Italia da due anni e pensavo che sarei andato nello SPRAR, invece siamo qui. In tanti e senza niente. Stiamo impazzendo tutti, ci riportano sempre al punto zero. Vedi io ho un permesso umanitario e sto chiedendo la carta di identità ma non ci fanno fare la residenza, dicono che ci sono dei problemi”.
Provenendo da centri diversi, la questione relativa all’iscrizione anagrafica cambia da persone a persona in base al territorio di provenienza: c’è chi ha già la carta d’identità e chi non sa nemmeno cosa sia l’iscrizione anagrafica. Coloro che si trovano qui da luglio avrebbero il diritto all’iscrizione anagrafica perché il centro, superati i tre mesi di permanenza, rappresenta dimora abituale.
Chiediamo al responsabile che problemi ci sono per l’iscrizione anagrafica e ci dice “nessuno, possono iscriversi”. Gli chiediamo perché allora non sia stato possibile farlo, visto che siamo a gennaio. “Le difficoltà sono rappresentate dalle residenze dei precedenti ospiti che non sono stati ancora cancellati”, risponde laconico.
Il CAS Enea è una sorta di palazzone temporaneo, un qualcosa che non ha forma, ha cambiato gestione da luglio eppure stenta a partire. La scuola di italiano è emblematica: l’insegnante scrive su dei pezzi di cartone non essendoci altro con cui lavorare, e molti ospiti si recano anche in scuole esterne, in autonomia, per imparare la lingua. I presenti ci dicono che l’insegnante è brava, ma le ore ed il numero di insegnanti insufficienti rispetto alla presenze ed alle esigenze.
La legge Salvini ha di fatto abolito le scuole di italiano nei centri di accoglienza, uno dei capisaldi propedeutici a favorire l’inclusione sociale, il primo momento di contatto, il racconto di sé, del luogo in cui ci si trova. Gli enti con i vecchi appalti ancora hanno nel capitolato i soldi necessari per insegnanti e materiali, ma a breve, una volta terminati i vecchi contratti, scompariranno.
Agli ospiti è stata fornita una tessera ATAC mensile per gli spostamenti, anche perché il posto non solo è lontano da tutto, ma si trova anche in zona pericolosa, proprio dove c’è il punto di uscita della tangenziale, nascosto da un cancello di alberi di pino.
Il mondo esterno corre veloce, le macchine si fermano a fare benzina e vanno via. Una lunga fila di auto attende di poter entrare in tangenziale. Sono le otto di sera, a parte i fari delle automobili e le luci del benzinaio, non c’è altro. Il rumore dei motori e lo smog sovrastano e cancellano le voci ed i volti degli uomini e delle donne “rinchiusi” in questo posto. Cartelloni pubblicitari strappati nella regola spietata che fa susseguire una pubblicità all’altra, un volto ad un altro. Un mondo bidimensionale in cui le politiche di questo paese hanno violentemente stirato le persone, fino a farle scomparire.