Il TAR di Basilicata torna ad esprimersi sulle revoche delle misure di accoglienza emanate dalla Prefettura di Matera. E ancora una volta i ricorsi depositati dall’Avvocato Angela Maria Bitonti del Foro di Matera, referente Asgi Basilicata, con il supporto della Campagna LasciateCIEntrare, sono stati accolti completamente.

In questa occasione, il Tribunale amministrativo ha preso posizione rispetto a ben 7 casi di richiedenti asilo, tutti giovanissimi, provenienti da Gambia e Costa d’Avorio e ospiti di due CAS del materano, che si sono visti revocare le misure di accoglienza da un giorno all’altro soltanto in ragione del fatto che risultavano, “da documentata comunicazione” della Questura di Matera, “aver svolto attività lavorativa”.

Poco importava quando, per quanto tempo, con quali guadagni e per conto di chi. L’importante era che abbandonassero il centro entro 30 giorni dalla comunicazione.

Nei ricorsi presentati, innanzitutto, abbiamo lamentato la violazione dell’art. 14, comma 4, D.Lg.vo n. 142/2015, nonché l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, perché tutti questi ragazzi avevano, sì, lavorato, fra il 2017 e il 2018, come braccianti nelle campagne del metapontino, ma soltanto saltuariamente e con buste paga bassissime (ne avevamo parlato anche qui, facendoun quadro della situazione nella Basilicata post decreto sicurezza).

Inoltre, ai giudici del Tar abbiamo anche evidenziato altre due importanti violazioni: ovvero la violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990, in quanto, di fatto, non sussisteva alcuna urgenza di celerità del procedimento; e la violazione dell’art. 3 L. n. 241/1990, in quanto il provvedimento impugnato non contiene le ragioni logico-giuridiche che hanno indotto la Prefettura di Matera a ritenere che i ricorrenti avessero “mezzi economici sufficienti a svolgere una vita adeguata, né i criteri in base ai quali tali valutazioni siano state effettuate”.

E in effetti, i giudici del TAR di Basilicata hanno ritenuto i 7 ricorsi fondati, argomentando il primo motivo di impugnazione e ritenendo assorbiti gli altri due. Questo perché, partendo proprio dalla cristallinità delle norme (art. 14, comma 1 e 3, e art. 23, comma 1, lett. d) del D.Lg.vo n. 142/2015), si evince che i “mezzi sufficienti” pari o superiori “all’importo annuo dell’assegno sociale” (che secondo l’INPS ammonta a poco meno di 6000 euro annui), presi come parametro di valutazione dalle Prefetture per revocare le misure di accoglienza, devono essere di “carattere stabile e/o duraturo” e, comunque, “devono riferirsi ad un arco temporale minimo di 1 anno ed alle attuali condizioni dello straniero richiedente la protezione internazionale”.

E poiché dalla documentazione acquista in giudizio, risulta che tutti e 7 i ricorrenti hanno lavorato sempre a tempo determinato ed hanno percepito un reddito inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale, è chiaro che i provvedimenti emanati della Prefettura di Matera violano palesemente l’art. 14 D.Lg.vo n. 142/2015.

Oltretutto, le comunicazioni della Questura di Matera, datate fine ottobre 2018, poste alla base dei provvedimenti prefettizi, indicano soltanto la comunicazione obbligatoria del datore di lavoro, ma non sono stati di fatto accertati i periodi di tempo in cui i ricorrenti hanno realmente lavorato e le somme effettivamente guadagnate.

Queste sette ordinanze sono straordinariamente importanti per vari motivi. Innanzitutto, in modo indiretto assestano un nuovo duro colpo al cosiddetto decreto Sicurezza, poiché, guarda caso, tutti questi provvedimenti sono partiti a raffica dopo la sua entrata in vigore.

In secondo luogo, evidenziano che, molto spesso, i provvedimenti vengono emessi con estrema superficialità (come anche nel caso della giovane donna nigerianadi cui abbiamo parlato nei giorni scorsi, anche lei in attesa di un esito dellostesso TAR), e che molte energie e risorse potrebbero essere concentrate e messe a frutto altrove. Per fare questo, basterebbe un po’ di buonsenso e porre l’attenzione alle persone, e mai ai numeri.

Magari, sarebbe stato più opportuno verificare l’assenza di situazioni di sfruttamento lavorativo e forme di piccolo caporalato (viste le buste paga bassissime ed i pochi contributi previdenziali versati, ndr), fenomeno diffuso ma molto nascosto anche nel metapontino. Ed eventualmente denunciare il tutto all’Ispettorato del Lavoro. E chiedersi, soprattutto, come si possa avere “mezzi sufficienti” per vivere dignitosamente con poco meno di 6000 euro all’anno.

La Campagna LasciateCIEntrare, insieme all’avvocato Bitonti, esprime grande soddisfazione per il risultato ottenuto.